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Il referendum è morto! Viva il referendum!

 

Roma, 8 giugno 2025

Premessa necessaria: sono andato a votare domenica 8 giugno, ho votato e ho fatto votare 5 sì. Nel mio piccolo ho cercato di convincere altre persone a recarsi alle urne e ad esprimere comunque il loro voto: un consiglio non proprio disinteressato e solo apparentemente neutrale. Ulteriore premessa: la crisi della nostra democrazia, data dalla scarsa capacità di mobilitazione e radicamento dei partiti e in generale dei corpi intermedi, dalla sempre crescente astensione e da un progressivo abbandono del dibattito pubblico, è ormai innegabile. Adesso siamo pronti per una rigenerante bagno di sincerità e onestà intellettuale. Non è facile, specie perché è davvero difficile andare contro le proprie legittime preferenze, convinzioni, idee. Cominciamo.

5 quesiti referendari, un’affluenza che ha toccato il 30%. Una partecipazione molto bassa che conferma una tendenza ormai consolidata: i referendum abrogativi non riescono più a coinvolgere e a chiamare alle urne un numero sufficiente di elettori. L’asticella del 50% è stata superata per l’ultima volta nel 2011, in una tornata caratterizzata da una forte politicizzazione dei quesiti, all’epoca indirizzati contro un Governo Berlusconi in forte crisi, e da un quesito sul nucleare rilanciato dal disastro della centrale nucleare di Fukushima in Giappone.

Una disaffezione dello strumento referendario ormai evidente. Se negli anni è diventato tecnicamente più semplice raggiungere la quota delle 500mila firme necessarie per richiedere la consultazione, il crescente distacco dal voto ha reso quasi proibitivo raggiungere quella maggioranza assoluta di elettori.

L’insofferenza per i referendum falliti ha generato numerose richieste di riforma, il più delle volte dirette ad abbassare il quorum minimo o a parametrarlo al numero di elettori votanti alle ultime elezioni politiche.

Il disagio verso il quorum “alto” ha fatto dimenticare ai più la motivazione profonda alla sua base. Come è possibile capire leggendo i verbali dell’Assemblea costituente, il tema del referendum fu molto dibattuto ed il compromesso raggiunto ha un senso molto chiaro.

In una democrazia rappresentativa parlamentare come la nostra, la sovranità è esercitata dal popolo in prima battuta con l’elezione dei propri rappresentanti alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. La legge, approvata dall’Assemblea che rappresenta la Nazione, è la sintesi della volontà generale nata da una tesi (la volontà della maggioranza) e un’antitesi (il rifiuto dell’opposizione). Per superare il risultato dell’attività del Parlamento una minoranza organizzata, in grado di raccogliere almeno 500mila firme, può richiedere un referendum abrogativo. Ma proprio perché l’obiettivo del referendum è abrogare la legge, espressione della volontà generale, è richiesto almeno che su di esso si siano pronunciati almeno il 50% + 1 degli elettori.

Per questo per un altro tipo di referendum, quello cosiddetto “confermativo” che ha ad oggetto le riforme costituzionali, non è previsto il quorum. In quel caso, infatti, l’elettore si pronuncia su qualcosa che è già stato approvato dai suoi rappresentanti eletti ma, data l’importanza della materia, la Costituzione predilige maggioranze parlamentari larghe o quantomeno una conferma del corpo elettorale.

Filosofia del diritto, teorie superate? In parte sì, probabilmente. Ma chiunque voglia riformare il referendum abrogativo non può prescindere dalla riflessione dell’Assemblea costituente: non si può inneggiare alla “Costituzione più bella del mondo” solo quando conviene, a fasi alterne. E se si può legittimamente dissentire da questa impostazione, non si può non riconoscerne il significato profondo.

E allora il referendum non conta niente? Assolutamente no, ed è la storia della Repubblica a confermare la sua importanza. Il referendum può segnare grandi svolte politiche, può cambiare i costumi di una società intera, può far cadere governi e concludere carriere politiche apparentemente incontrastate.  Ma il suo utilizzo rappresenta sempre un grande azzardo politico che si può vincere o perdere.

E quando si perde, conoscendo a monte le sue regole, non si può tenere il broncio e far saltare il banco sostenendo di essere stati ostacolati. Il campo del referendum è prima di tutto quello dei grandi temi etici e sociali, questioni talmente sentite e ritenute vincolanti da generare automaticamente in ogni cittadino una opinione. Questioni su cui chiunque sa di essere costretto ad esprimersi con un “Sì” o un “No”.

Qualcuno avrebbe mai potuto dubitare del raggiungimento del quorum nei referendum sul divorzio e sull’aborto?  Obiezione: erano altri tempi, con una elevatissima partecipazione al voto e partiti molto forti. Rilancio: e se oggi si tenesse un tipo di referendum sull’eutanasia o il suicidio assistito? E se si votasse per l’abrogazione delle norme sulle unioni civili? Oggi nessuno potrebbe scommettere con sicurezza sul raggiungimento del quorum per tali questioni ma è ragionevole immaginare che la partecipazione, e il dibattito pubblico, sarebbero di gran lunga maggiori di quelli ottenuti l’8 e il 9 giugno.

Questi referendum contavano tutti sul volano che il quesito sull’autonomia differenziata avrebbe dato a tutti gli altri. Per quella questione il dibattito sarebbe stato di gran lunga più sentito e combattuto e l’astensionismo, anche al Sud, sarebbe stato senz’altro minore. Venuto meno il bonus dell’autonomia differenziata dopo la sentenza n. 192 del 2024 della Corte costituzionale, gli altri quesiti si sono trovati disarmati.

Quesiti dal contenuto – e soprattutto dagli effetti – decisamente complessi per uno strumento netto e manicheo come il referendum. Passione politica e propaganda a parte (*vedi premesse!), la loro approvazione avrebbe delineato confini incerti e avrebbe probabilmente richiesto un intervento del Parlamento o del Governo. Questo perché il referendum abrogativo nasce in prima battuta per cancellare qualcosa e solo in un secondo momento – e non senza tante premure e dubbi – creare qualcosa di nuovo, specie in temi tecnico-giuridici complessi.

Ciò non significa che non si può ricorrere all’elettorato anche per argomenti delicati e tecnicamente difficili. Ma bisogna avere la capacità politica di saper spiegare e veicolare quei temi, ponendoli al centro del dibattito pubblico. E questa capacità non la regala, né facilità nessuno: la lotta tra i partiti sta proprio qui, nel rendere un tema il cuore dell’agenda politica, l’argomento all’ordine del giorno. Se non si riesce in questo, se il muro dell’indifferenza non viene scalfitto, se il Governo (vero obiettivo politico della contesa) boicotta ed ostacola tutto, non ci si può lamentare. L’errore fatale è quello di prendersela con gli elettori rei di “non aver capito l’importanza delle questioni”: che per carità, ciò può anche essere. Ma è il compito di chi fa politica convincere le persone: se questo non succede bisogna essere lucidi e fare ammenda. E magari riprovare, ma con un altro spirito e con meno supponenza.

"Vabbè, auguri" - Aprile di Nanni Moretti, 1998

Forse anche con meno ipocrisia. Come quella sull’astensionismo, automaticamente assimilato al disinteresse o allo scarso attaccamento alla democrazia. Una tesi facile ed appassionante, utile per scaldare i cuori in una campagna referendaria difficile. Un argomento che ha il pregio di ricordare l’importanza essenziale del voto in una democrazia matura. Ma pur sempre un argomento che tace sulla chiara legittimità dell’astensione in una contesa in cui il quorum stesso è l’elemento fondamentale. Se così non fosse, l’articolo 75 della Costituzione non avrebbe mai previsto la necessaria partecipazione della maggioranza assoluta degli elettori.

Un argomento che è a doppio taglio che può essere utilizzato solo da chi si è mantenuto sempre coerente ed ha votato a tutte le consultazioni referendarie.

Nel 2022, per i referendum sulla giustizia avanzati dalla Lega, in tanti coscientemente non andarono a votare, con il dichiarato intento di far fallire quell’iniziativa che ritenevano populista, demagogica e pericolosa. Non si ricordano, all’epoca, le stesse sirene fatte suonare contro “le urne deserte”. Non pervenuti i grandi appelli alla sacralità del voto. E i referendum abrogativi del 2000 e del 2003 proprio sui licenziamenti nelle imprese rispettivamente con meno e con più di quindici dipendenti? In quanti andarono votarono e chi si schierò per l’astensione? Ecco i dati:  

https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=F&dtel=21/05/2000&es0=S&tpa=I&lev0=0&levsut0=0&ms=S&tpe=A 

https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php? tpel=F&dtel=15/06/2003&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S  

Una retorica, quella dell’importanza del voto, teoricamente nobile e importante ma inevitabilmente relativa e poco affidabile.

E questi 5 quesiti? È tutto finito? La strada referendaria è bloccata. Ma ne esiste ancora un’altra, quella che è sempre stata la più opportuna, la principale: votare i partiti che hanno sostenuto l’abrogazione. Sperare che ottengano la maggioranza in Parlamento e approvino una nuova legge.

In sostanza: vincere le elezioni.

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